Il giornalista Johnny Barrett (Peter Breck) si finge pazzo per farsi internare in un ospedale psichiatrico e risolvere un omicidio commesso all’interno della struttura. Quando il cinema di denuncia sociale incontra la perfezione stilistica. Quello che resta forse il più celebre film ambientato in un manicomio prima di Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman (1975) non è soltanto il coronamento della carriera di un grande regista – Samuel Fuller – votato da sempre a pellicole low budget e anticonformiste, ma anche il suo massimo capolavoro, l’opera che meglio porta a compimento la sua estetica visionaria. In una spirale di tensione straordinaria, il film mette moltissima carne al fuoco, da una rappresentazione spregiudicata della scienza medica a temi quali la segregazione razziale, le devianze sessuali e i traumi della guerra: tutti gli ingredienti sono equilibrati alla perfezione e il risultato è a dir poco impeccabile. Fuller esplora con precisione chirurgica i meandri della follia ma soprattutto le tare della civiltà americana, regalando meraviglie visive come gli inserti a colori e la scena allucinata del prefinale. Johnny Barrett è una splendida figura ambigua, reporter idealista che omaggia un mestiere praticato in gioventù dallo stesso Fuller, ma anche divorato da un’ambizione (il sogno di vincere il Pulitzer) che lo porta a compromettere i legami e la sua stessa salute psichica. Lo interpreta un ottimo Peter Breck, conosciuto soprattutto per la serie tv western La grande vallata.