Kang (Lee Kang-sheng) vive da solo in un grande appartamento, osserva dalla finestra gli alberi mossi dal vento e dalla pioggia e soffre di un male misterioso. Non (Anong Houngheuangsy) vive in una piccola abitazione, dove si prepara meticolosamente da mangiare, giorno dopo giorno. I due passeranno insieme qualche ora in una camera d’albergo, ponendo un freno temporaneo alle relative solitudini.
Tsai Ming-liang ci avvisa fin dall’inizio: il film che state per vedere non è stato tradotto o sottotitolato. Le conversazioni a ogni modo sono ridotte all’osso e, chi conosce il cinema dell’autore nato in Malesia e naturalizzato taiwanese, di certo non si stupirà. Non è la prima volta che Tsai dirige un lungometraggio praticamente muto, fatto di silenzi e non di parole, con i soli sguardi dei personaggi che bastano a farci capire cosa provano. Col suo stile radicale, basato sulla staticità e su una gestione dei tempi di montaggio ben diversa da ciò che richiede il linguaggio cinematografico a cui siamo abituati, Tsai torna a firmare un lungometraggio sette anni dopo il potentissimo Stray Dogs, ma in mezzo ci sono stati cortometraggi e prodotti di varia natura (tra cui anche un lavoro in VR) pienamente nelle corde del regista asiatico. Anche in questo film ciò che interessa a Tsai è l’essere umano, le sue incertezze e le sue paure, con uno sguardo sempre empatico nei confronti dei suoi disperati personaggi: la cinepresa li segue con un occhio pieno di tenerezza nelle loro azioni quotidiane (insistite allo sfinimento, come il cinema dell’autore vuole). Li seguiamo con un montaggio alternato fino al tanto atteso incontro, erotico e delicatissimo al punto giusto, chiuso con un toccante omaggio musicale a Charlie Chaplin (guarda un po’, proprio colui che più di chiunque altro ha cercato di “prolungare” il cinema muto ben oltre l’inizio di quello parlato). Ed è davvero emozionante questo Days: se si sceglie di stare pazientemente al gioco del regista, il risultato è uno dei lavori più toccanti, strazianti e fin commoventi del cinema asiatico contemporaneo, capace di muovere corde emotive profonde soltanto attraverso lo sfiorarsi dei corpi, le lacrime che si apprestano a scendere sui volti ripresi in primo piano, il suono di un carillon o persino un edificio abbandonato, metafora perfetta delle esistenze che Tsai continua a raccontare. Semplicemente devastante la prova di Lee Kang-sheng, attore feticcio del regista e protagonista di una performance di grande intensità, ma gli tiene testa anche il sorprendente Anong Houngheuangsy. Presentato in concorso al Festival di Berlino 2020.