Dallas, novembre 1963: nei quattro giorni successivi l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, la First Lady Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) deve fare i conti prima con i concitati attimi susseguenti la tragedia e poi a riconquistare fiducia, consolare i figli e definire l’eredità storica del marito.
Dopo Neruda, Pablo Larraín torna a confrontarsi con il biopic e lo fa sempre in maniera decisamente originale e personale, disattendendo qualsiasi possibile cliché, trascendendo il genere e i suoi canoni per imbastire un discorso più complesso e stratificato. Partendo da uno dei temi più cari del suo cinema, il contrasto tra pubblico e privato (e tra la realtà e la sua rappresentazione), il cineasta cileno costruisce intorno alla sua protagonista (una splendida Natalie Portman) un affresco profondamente umano su una icona che è prima di tutto donna, con le sue fragilità e le sue paure, le sue contraddizioni e la sua capacità di amare in maniera pura, sincera e incondizionata, mostrandosi al contempo risoluta e sperduta davanti a un mondo che le crolla addosso. Dietro la figura pubblica, elegante e impeccabile anche nella manifestazione del lutto, c’è una persona mossa da sentimenti contrastanti, un animo forte e debole allo stesso tempo, chiamato a confrontarsi improvvisamente con un indicibile dolore e con tutte le sue conseguenze. Ma Jackie è anche una riflessione sulla crudele labilità del tempo e della memoria, oltre che sull’universale senso di solitudine e inadeguatezza dinanzi al volgere degli eventi che accomuna ogni essere umano, speranzoso di lasciare un segno di sé nelle pagine della storia, dando un senso alla propria esistenza e alla propria sofferenza, quotidiana o straordinaria che essa sia, sempre alla ricerca di un barlume, sfuggevole e intenso, di felicità e della propria personale Camelot. Pur mantenendo una certa linearità narrativa, il film di Larraín vive di ellissi mai gratuite, sempre funzionali e coerenti nello sviluppare i propri assunti, riuscendo a toccare le corde emotive dello spettatore con una grazia e una semplicità davvero uniche, regalando una struggente opera d’arte, dolente ritratto di una figura storica e di un mondo tutto. Premio per la miglior sceneggiatura (Noah Oppenheim) alla Mostra del Cinema di Venezia 2016.