“A volte ho paura a guardare le sue opere. Paura di quella loro perfezione assoluta. Sembra che quest’uomo non conosca solo la magia di ogni mezzo tecnico, ma sappia anche agire sulle corde più segrete dei pensieri, delle immagini mentali e dei sentimenti umani. Così dovevano agire le prediche di San Francesco d’Assisi, così ci incantano i dipinti del Beato Angelico, così ci affascina Andersen”.
Sergej M. Ejzenštejn descrive in questo modo Walt Disney, un uomo che ha cambiato in modo radicale la maniera di fare animazione, o meglio, di fare cinema. E le origini di questo miracolo vanno ricercate in 3 date: 1901, 1928, 1937. Ossia: nascita di Walt, la proiezione di Steamboat Willie e, infine, la proiezione di Biancaneve e i sette nani. Sono passati dunque 80 anni da quando Walt Disney decise che era arrivato il momento di cambiare per sempre il cinema d’animazione, regalando agli spettatori qualcosa che allora sembrava impensabile, assurdo, folle: un lungometraggio animato in Technicolor pareva già un’impresa titanica, cui Disney ritenne necessario aggiungere i dialoghi. A distanza di 10 anni dall’avvento del sonoro nel cinema, grazie a The Jazz Singer di Alan Crosland, arriva anche per l’animazione l’ora di un cambiamento radicale e il 21 dicembre 1937, al Carthay Circle Theatre, alcune star di Hollywood come Judy Garland, Marlene Dietrich, Cary Grant, Charlie Chaplin e Clark Gable ebbero l’onore di poter assistere alla prima di un’opera destinata a rivoluzionare il cinema animato.
Dopotutto, non è un mistero che Walt Disney avesse sempre sognato di poter realizzare un lungometraggio animato e, dopo aver fatto pratica trasformando i sui sogni e le sue visioni in immagini con le Silly Simphonies, arrivò la possibilità di spiccare il volo, benché questo comportasse dei rischi molto grandi: per esempio il fatto che Disney fu costretto a ipotecare la casa per ottenere il budget necessario, il tutto contro il parere della famiglia, in particolare di suo fratello Roy. Ed è di nuovo il suo passato a ritornare, ad essere un elemento fondante della decisione presa: era il 1916 quando Walt, allora quindicenne, si intrufolò in un cinema di Kansas City dove stavano proiettando Biancaneve, con protagonista Marguerite Clark. E ne restò folgorato. La prima principessa Disney (ne realizzò altre 2 solamente, ossia Cenerentola e Aurora) prese quindi vita dalle pagine dei fratelli Grimm, anche se Disney decise di apportare delle modifiche al testo originale, pur non edulcorandolo come erroneamente si potrebbe pensare. La giovane Biancaneve – che parrebbe ispirata a Marjorie Belcher, figlia di un maestro di ballo di Los Angeles – non era infatti ridotta a schiavitù dalla matrigna (disegnata sui lineamenti dell’attrice Joan Crawford), che decide di eliminarla solo quando le viene rivelato che la giovane è più bella di lei. Disney ha da sempre realizzato opere che sono specchio della realtà contemporanea, e soprattutto nelle figure femminili questa tendenza è quantomai evidente, quindi risulta normale che nel 1937 la prima cosa che Biancaneve fa appena trova la casa dei Sette Nani è quella di spazzare, pulire, lavare i piatti e rifare i letti: una casalinga, per altro indifesa, che ha bisogno dell’intervento del principe per poter trovare la felicità. La prima di un’evoluzione che ha portato all’assoluta emancipazione in Frozen, dopo che Ariel aveva aperto la via all’inizio del rinascimento Disney. Inoltre, i Sette Nani non avevano nome nell’opera originale, mentre fu Disney a volere che ognuno di loro avesse un nome che potesse ricordare simpaticamente la propria personalità. Infine, il bacio con cui il principe risveglia Biancaneve non era presente nella fiaba, come del resto viene cambiata la morte della regina: nel lungometraggio finisce scaraventata da un dirupo nel bel mezzo di un temporale, mentre nella fiaba viene invitata al matrimonio di Biancaneve ed è costretta ad indossare stivali incandescenti e a danzare fino a crollare. Quale sia la versione più cruda è difficile a dirsi, ma rimane il fatto che quella realizzata da Disney rimane una delle sequenze più inquietanti e, perché no, terrificanti della sua intera filmografia, assieme alla metamorfosi della strega.
Un enorme successo di pubblico (con i soldi incassati al botteghino, Disney riuscì a produrre Pinocchio e il suo vero sogno, Fantasia) e di critica, che valgono a Disney la consegna, dalle mani di Shirley Temple, di ben 8 Oscar, uno a dimensioni normali e 7 in versione molto ridotta: una simpatica trovata dell’Academy per celebrare il genio di Walt e il suo primo capolavoro. Di cui anche Ejzenštejn è entusiasta:
“La ragione è che l’opera stessa di Disney mi appare come quella goccia di gioia, quel breve momento di sollievo, quello sfioramento furtivo di labbra nell’inferno sociale di pene, ingiustizie e sofferenze in cui è drammaticamente rinchiusa la cerchia dei suoi spettatori americani”