Kapò (1959) di Gillo Pontecorvo: tristemente noto per la stroncatura di Jacques Rivette (il quale lo accusò di spettacolarizzazione della morte, condannando il celebre “carrello” che mostra il suicidio di Emmanuelle Riva), è comunque un’opera fondamentale nel mostrare la latente abiezione della natura umana. Quotidianità a livello bestiale e degradazione fisica e morale, con un’indimenticabile protagonista pronta a tutto pur di sopravvivere: imperfetto, ma necessario.
Shoah (1985) di Claude Lanzmann: dodici anni di ricerche e cinque di montaggio per un documentario di oltre nove ore, che mostra senza filtri la barbarie del genocidio ebraico. Un omaggio strabiliante nella sua purezza e coerenza, in cui Lanzmann punta sulla testimonianza diretta, arrivando al cuore della tragedia: epico, essenziale, definitivo.
Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg: toccante lungometraggio incentrato sulla figura di Oskar Schindler, imprenditore tedesco che salvò dallo sterminio 1200 ebrei destinati ai campi di concentramento. Spielberg prende il volo, regalando lampi di poesia inaspettati (la candela, la bambina vestita di rosso a spiccare sul mirabile bianco e nero di Janusz Kaminski) senza esimersi dalla serrata ricostruzione storica. Sette meritatissimi premi Oscar per un film impreziosito da un cast in stato di grazia (su tutti, il protagonista Liam Neeson e lo sgradevole Ralph Fiennes nel ruolo di Amon Göth).
La vita è bella (1997) di Roberto Benigni: il regista, sceneggiatore e interprete Benigni rievoca l’orrore dello sterminio, filtrandolo con un’ottica favolistica e sentimentale. La vicenda del cameriere Guido che si adopera per salvaguardare il figlioletto Giosuè dalle brutture dei campi di concentramento risulta non poco furbetta, ma abbastanza sentita e poetica per colpire nel segno. Grande successo internazionale e pioggia di riconoscimenti, tra cui tre premi Oscar.
Train de vie – Un treno per vivere (1998) di Radu Mihaileanu: elogio della follia (non a caso il cardine della narrazione è Shlomo, il matto del villaggio) che manipola la Storia da una prospettiva irreale e utopica, tratteggiando i tentativi, da parte di una comunità ebraica, di sfuggire alla deportazione. Originale e a tratti toccante, anche se decisamente squilibrato a causa di un umorismo un po’ forzato.
L’allievo (1998) di Bryan Singer: cronaca del rapporto morboso tra un giovane studente americano e un vecchio gerarca nazista, dal racconto Un ragazzo sveglio di Stephen King. La tragedia dell’Olocausto vira a una prospettiva anomala (il contrasto generazionale, le dinamiche quasi masochistiche tra i due protagonisti); interessante e claustrofobico, ma poco coeso. Peccato.
Amen. (2002) di Costa-Gavras: il regista greco rievoca gli orrori del nazismo indagando sulle responsabilità ecclesiastiche. Un tema scomodo e affrontato di rado, condotto con essenzialità, per un film che, pur con alcuni cedimenti, non può lasciare indifferenti.
Il pianista (2002) di Roman Polanski: odissea del pianista ebreo Wladyslaw Szpilman (uno straordinario Adrien Brody, premiato con l’Oscar), costretto a vagare in solitudine nella Polonia devastata dall’assedio nazista per sfuggire alla deportazione e alla morte. Polanski attinge al proprio vissuto (la reclusione nel ghetto, la cattura dei genitori, la fuga) e regala un’opera commovente ed estremamente personale, pur con qualche caduta nell’eccesso melodrammatico.
Il figlio di Saul (2015) di László Nemes: nella Auschwitz del 1944, l’ungherese Saul è costretto a collaborare con i nazisti per smaltire i prigionieri. Convinto di aver ritrovato il cadavere del proprio figlioletto, farà di tutto per garantirgli un degno riposo. Folgorante esordio per Nemes, già assistente di Béla Tarr, il film affronta la tragedia dell’Olocausto tramite il dramma del protagonista, raggiungendo picchi emotivi di rara umanità. Candidato all’Oscar come miglior film straniero.