Uno dei simboli del cinema francese, volto emblematico della Nouvelle Vague, attore perfetta incarnazione dell’antieroe, sempre diviso tra ruoli da malvivente e altri da personaggi più scanzonati, figura di perdente simpatico e schietto, Jean-Paul Belmondo è riuscito a imporsi nell’immaginario collettivo grazie alla sua recitazione mimica e a un volto fortemente espressivo e affabile.
Attore idealmente complementare all’altro grande attore transalpino emerso negli anni Sessanta, Alain Delon, Belmondo ha saputo costruirsi una filmografia di tutto rispetto, spaziando dal cinema d’autore a prodotti più commerciali, da pellicole di genere ad altre più sperimentali, diventando interprete tra i più amati dal pubblico e da registi come Jean-Pierre Melville, François Truffaut e Jean-Luc Godard.
L’imminente Mostra del Cinema di Venezia omaggerà Belmondo con il Leone d’Oro alla Carriera e, in occasione di questo meritatissimo premio, la redazione di LongTake ha deciso di dedicare all’icona francese la sua classifica settimanale.
Ecco, dunque, le cinque migliori interpretazioni di Jean-Paul Belmondo secondo la nostra redazione:
5) Asfalto che scotta
Opera che si colloca tra i capisaldi del noir francese e che elegge Lino Ventura e Jean-Paul Belmondo a due degli interpreti favoriti del genere. Mentre la voce narrante introduce da un onnisciente e gelido fuori campo i preamboli narrativi, i personaggi che calpestano l’asfalto metropolitano (bruciante di tradimento e solitudine) non possono che scappare invano da un’esistenza già perdente. Evitando le rigide dinamiche dei gangster americani e i cervellotici intrecci chandleriani, Sautet orchestra sapientemente il viaggio verso la rassegnazione e la resa a una Parigi fumosa e amara. Secco ed essenziale, un modello senza fronzoli e inutili divagazioni. Splendido bianconero di Ghislain Cloquet, musiche di Georges Delerue.
4) La mia droga si chiama Julie
A metà strada tra il thriller psicologico e il dramma sentimentale, un film capace di avvincere lo spettatore fin dalle sequenze iniziali che restituiscono con grande realismo quel conturbante alone di mistero che pervade la pellicola. In quest’opera, François Truffaut esplicita il tema della conoscenza, rappresentando la tensione erotica che si crea tra i due protagonisti con ardente palpito ma senza distruttività. Memorabile la coppia formata da Belmondo e Catherine Deneuve, due icone del cinema francese e sex symbol dell’epoca, perfettamente calati nei panni di personaggi tanto affascinanti quanto problematici. Curiosità: La Siréne du Mississipi, il romanzo che ha ispirato il film, compare all’inizio di Baci rubati (1968): è il libro che Antoine Doinel è intento a leggere.
3) Lo spione
Noir che guarda al cinema americano ma in cui Jean-Pierre Melville mantiene un’impronta personale, unendo allo scavo psicologico e alla dimensione più intimista una buona tensione spettacolare, solo in apparenza convenzionale. L’azione è sapientemente centellinata e i colpi di scena non mancano, ma il regista è principalmente interessato a raccontare, più che la risoluzione dell’intreccio giallo, l’amicizia virile come unica forza capace di sostenere dei perdenti destinati alla sconfitta, che vedono vanificati tutti i loro sforzi per cercare di cogliere in contropiede un destino beffardo e si trovano a dover agire in un mondo che ha rigettato ogni sentimentalismo, ammantato da un costante clima di sospetto e inquietudine. Gran prova di Belmondo, ma Serge Reggiani non è da meno.
2) Il bandito delle 11
Concitato, sovversivo, indimenticabile: Il bandito delle 11 è una delle opere più importanti firmate da Jean-Luc Godard. Lo si può definire una summa di tutto ciò che il cineasta transalpino ha fatto fino a quel momento, ma mai come in questo caso il regista ha dato tanta importanza al colore e a una struttura frammentata e lucidamente sperimentale. In perenne crescita con il passare dei minuti, raggiunge l’apice nel memorabile finale in cui Belmondo, dopo essersi dipinto il volto di blu, si lega intorno al capo una fila di candelotti di dinamite rossi e gialli. È uno dei suicidi più angoscianti dell’intera storia del cinema, perfetta conclusione esplosiva del primo periodo godardiano. Il titolo originale, Pierrot le fou, fa riferimento al nome con cui Marianne chiama il personaggio maschile.
1) Fino all’ultimo respiro
Manifesto della Nouvelle Vague, capolavoro di Jean-Luc Godard, capostipite del cinema moderno: è stato chiamato in tanti modi Fino all’ultimo respiro, ma qualsiasi definizione, forse, non basta a renderne la portata epocale. Indubbiamente tra gli esordi più impressionanti di sempre, l’opera prima di Godard si avvale della collaborazione di François Truffaut (autore del soggetto), di una coppia di attori in stato di grazia (con Belmondo al primo ruolo memorabile della carriera) e di un montaggio (Cécile Decugis) da antologia. Mettendo in pratica le idee innovative che i “giovani turchi” promuovevano sulle colonne dei Cahiers du Cinéma, il regista costruisce un grande omaggio al cinema del passato con uno sguardo, però, proiettato verso il futuro.