Londra, anni Cinquanta. Lo stilista Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) dirige insieme alla sorella Cyril (Lesley Manville) una celebre casa di moda, inconfondibile marchio di stile ed eleganza dell’alta società britannica. Mentre si trova fuori città, Reynolds conosce una timida cameriera di nome Alma (Vicky Krieps), che finirà presto per diventare la sua musa e la sua amante.
Cinque anni dopo The Master (2012), Paul Thomas Anderson torna ancora agli anni Cinquanta e a un rapporto ossessivo tra due personaggi, in cui le dinamiche di figura forte e figura debole si vanno a interscambiare nel corso della narrazione. Reynolds Woodcock, uomo austero e severissimo ma anche capace di inattese fragilità infantili, è ancora succube del fantasma di una madre, le cui reliquie (una fotografia, una ciocca di capelli) porta sempre con sé: lui, che conosce alla perfezione la femminilità e i desideri di ogni donna, sembra poter fare a meno di una compagna nella vita, fino a quando non conosce Alma, modella, amante e addirittura “nuova madre” pronta a prendersi cura di lui e a scacciare gli spettri nascosti tra i fili degli abiti che Reynolds tesse quotidianamente. È infatti un film di fantasmi, Il filo nascosto, ma non sono soltanto quelli presenti a livello diegetico, ma anche quelli di una storia (del cinema) caratterizzata dal ricorso alla pellicola 35mm, capace di restituire atmosfere del tempo che fu e di ricordare film americani diretti da autori inglesi (molti i possibili rimandi a Rebecca – La prima moglie e Il sospetto di Alfred Hitchcock) o, allo stesso tempo, film inglesi di autori americani (Il servo e numerosi lavori successivi di Joseph Losey). Paul Thomas Anderson, nato in California nel 1970, ha firmato così il suo film più british, amalgamando la compostezza del cinema inglese con l’incisiva brutalità di Martin Scorsese (L’età dell’innocenza) e i caroselli visivi e giocosi di Max Ophüls (si veda la magnifica sequenza del Capodanno). Ma, in mezzo a tanti possibili riferimenti fantasmatici, a svettare è comunque il tocco personalissimo di un autore (qui anche sceneggiatore e direttore della fotografia) che prosegue a scavare negli abissi dell’animo umano con una forza audiovisiva e drammaturgica impressionante, in grado di trattare tematiche complesse e stratificate senza aver bisogno di alcun momento forzatamente intellettuale o di conversazioni che avrebbero gravato sulla godibilità dell’opera. Attraverso un montaggio fluido e scorrevole dall’inizio alla fine, accompagnato dall’ipnotica e impeccabile partitura musicale del fidato Jonny Greenwood, Anderson ha dato vita a un grande melodramma, con al centro l’amore e le debolezze umane, impossibili da nascondere anche sotto la stoffa di un magnifico abito da sposa. Soltanto Daniel Day-Lewis, uno dei più grandi attori dei decenni a cavallo tra i due secoli, avrebbe potuto interpretare il tormentato, esigente e fanciullesco Reynolds Woodcock. Il grande attore ha dichiarato che questa è stata la sua ultima interpretazione e una straordinaria carriera del genere non avrebbe potuto che meritare una tale conclusione.