Gente comune
Ordinary People
1980
Paese
Usa
Genere
Drammatico
Durata
124 min.
Formato
Colore
Regista
Robert Redford
Attori
Donald Sutherland
Mary Tyler Moore
Judd Hirsch
Timothy Hutton
Elizabeth McGovern
M. Emmet Walsh
Adam Baldwin
I Jarrett sono una famiglia dell'alta borghesia sconvolta dalla morte del primogenito e dal tentativo di suicidio del secondo figlio Conrad (Timothy Hutton). Il padre (Donald Sutherland) prova a superare il trauma salvando gli affetti e convincendo l'adolescente Conrad a vedere un analista (Judd Hirsch), ma si scontra con la freddezza della moglie (Mary Tyler Moore).
Robert Redford esordisce alla regia con un dramma famigliare raggelato e raggelante (sceneggiatura di Alvin Sargent, ottima e freddissima fotografia di John Bailey), in cui le ritualità dell'alta borghesia wasp (la barca, i sobborghi immersi nel verde, il golf, lo sport scolastico, le vacanze natalizie) vengono a contatto con l'imponderabile, il dolore e la perdita, gabbie per la costruzione di affetti autentici e per il superamento dei traumi. Esemplare, in tal senso, la chiusura dietro il formalismo borghese del personaggio della madre, splendidamente tratteggiato da Mary Tyler Moore. Tra tutti questi miti messi in discussione resiste la psicoanalisi, investita ancora una volta di un potere demiurgico e salvifico. Eccessivamente didascalico, tanto nella regia quanto nella sceneggiatura, ma di indubbio impatto emotivo, il film ebbe all'uscita un successo straordinario, probabilmente spropositato, di premi e di pubblico: cinque Golden Globe e quattro Oscar, tra cui quello al miglior film. Statuette all'esordio sia per Redford (regia) che per Timothy Hutton (attore non protagonista). La colonna sonora è basata sul seicentesco Canone di Johann Pachelbel, i cui fortunatissimi accordi si ritrovano, tra gli altri, anche in Let It Be dei Beatles e nell'Inno dell'Unione Sovietica. Da un romanzo di Judith Guest.
Robert Redford esordisce alla regia con un dramma famigliare raggelato e raggelante (sceneggiatura di Alvin Sargent, ottima e freddissima fotografia di John Bailey), in cui le ritualità dell'alta borghesia wasp (la barca, i sobborghi immersi nel verde, il golf, lo sport scolastico, le vacanze natalizie) vengono a contatto con l'imponderabile, il dolore e la perdita, gabbie per la costruzione di affetti autentici e per il superamento dei traumi. Esemplare, in tal senso, la chiusura dietro il formalismo borghese del personaggio della madre, splendidamente tratteggiato da Mary Tyler Moore. Tra tutti questi miti messi in discussione resiste la psicoanalisi, investita ancora una volta di un potere demiurgico e salvifico. Eccessivamente didascalico, tanto nella regia quanto nella sceneggiatura, ma di indubbio impatto emotivo, il film ebbe all'uscita un successo straordinario, probabilmente spropositato, di premi e di pubblico: cinque Golden Globe e quattro Oscar, tra cui quello al miglior film. Statuette all'esordio sia per Redford (regia) che per Timothy Hutton (attore non protagonista). La colonna sonora è basata sul seicentesco Canone di Johann Pachelbel, i cui fortunatissimi accordi si ritrovano, tra gli altri, anche in Let It Be dei Beatles e nell'Inno dell'Unione Sovietica. Da un romanzo di Judith Guest.
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