Separato dalla moglie (Ida Lupino) e travolto dall'alcolismo, l'attore Charles Castle (Jack Palance) cerca di svincolarsi dal dominio del produttore Stanley Shriner Hoff (Rod Steiger). Rimarrà coinvolto suo malgrado negli intrighi orditi ai danni della scomoda divetta Dixie Evans (Shelley Winters), ma saprà ribellarsi. Robert Aldrich mette in scena la pièce di Clifford Odets, adattata per lo schermo da James Poe, e anticipa l'attitudine alla destrutturazione della macchina cinema (sfiorata in Che fine ha fatto Baby Jane del 1962 e maggiormente delineata in Quando muore una stella del 1968), tratteggiando la deriva esistenziale di un protagonista imprigionato nelle maglie dello star system. Inganni, ipocrisie, violenza stemperata dalla maschera delle convenzioni: la sceneggiatura costruisce uno sviluppo teso e serrato, esaltato da dialoghi incisivi e dalle straordinarie prove di un cast in stato di grazia (mirabile Jack Palance in un ruolo non certamente calzante alla sua figura da duro); peccato per alcuni passaggi in odore di retorica e per un generale senso di staticità (dovuto all'impostazione teatrale) che non riesce a trasmettere l'angosciante claustrofobia funzionale al tema trattato. In ogni caso, da (ri)scoprire. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il Leone d'argento. Musiche di Frank De Vol, fotografia di Ernest Laszlo.