La sporca guerra americana in Iraq vissuta dal punto di vista degli artificieri. Per uno di loro, il sergente William James (Jeremy Renner), quel lavoro è parte della sua stessa identità nonostante i mille pericoli, i rapporti non sempre facili con i colleghi e la tensione emotiva nel confronto con la popolazione locale.
«La guerra è come la droga, crea dipendenza», recita la frase che apre il film. E infatti, è una forma di addiction quella che affligge il protagonista, non un eroe o un patriota modello, ma semplicemente un eccezionale professionista che ogni giorno rischia la vita e che pure non riesce a vivere in altro modo. La sua odissea quotidiana è raccontata in modo orizzontale senza una vera e propria trama, con uno stile quasi documentaristico: la Bigelow ci sbatte direttamente nell'inferno più tremendo con una pellicola buona anche se non eccelsa, priva di fronzoli e giudizi politici (c'è chi lo ha considerato un film destrorso, ma l'immagine dell'esercito americano non ne esce proprio immacolata). Dal punto di vista narrativo è piuttosto didascalico, ma il ritmo è alto e la tensione è sempre palpabile. Un po' ridondante, ma cinematograficamente maestoso. Gli attori più noti appaiono in piccoli ruoli, mentre la parte principale va a un semisconosciuto Jeremy Renner, che dimostra un talento e un'aderenza al personaggio davvero notevoli. Uscito negli Usa in poche sale otto mesi dopo il passaggio alla Mostra di Venezia 2008, è stato protagonista inatteso agli Oscar, dove ha battuto il ben più costoso e spettacolare Avatar (2009), firmato – ironia della sorte – dall'ex marito della Bigelow James Cameron. Sei le statuette vinte: miglior film, regia (la prima volta per un'autrice donna), sceneggiatura originale di Mark Boal, suono, montaggio, montaggio sonoro.