Angela Childs (Zoë Kravitz) è un’informatica con il compito di ascoltare e interpretare le voci registrate da Kimi, un assistente vocale lanciato da poco sul mercato, per migliorarne l’algoritmo. Le restrizioni dovute al COVID-19 le permettono di lavorare da casa, il che la aiuta a tenere a bada l’agorafobia sviluppata in seguito a un’aggressione; tuttavia, quando Kimi registra quello che sembra essere un crimine violento, Angela sarà costretta a lasciare il suo appartamento per la prima volta dopo anni di isolamento.

Undici anni dopo Contagion (2011), l’epidemia fa una nuova comparsa nella filmografia di Steven Soderbergh, questa volta nella forma del virus che tutti noi abbiamo vissuto in prima persona e di cui continuiamo a pagare le conseguenze psicologiche. Il COVID fa da cornice a quella che si potrebbe definire una versione contemporanea de La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock: Angela, come Jeff, non è in grado di uscire di casa, entra in contatto con il mondo esterno quasi esclusivamente attraverso le finestre (siano esse quelle del suo soggiorno o del suo computer) e viene a conoscenza di un delitto spiando nell’abitazione della vittima, pur servendosi di un oggetto più tecnologicamente avanzato del binocolo. Sebbene non raggiunga per veste formale il capolavoro hitchockiano, il thriller di Soderbergh contiene la giusta dose di suspense, facendo leva sulla paranoia collettiva riguardo il potere invadente della tecnologia (e nel fare questo non manca di creatività). Molto interessante, ad esempio, l’utilizzo del sonoro per approfondire l’immedesimazione dello spettatore con la protagonista, soprattutto attraverso il netto contrasto tra la quiete dell’appartamento e gli innumerevoli stimoli sonori della frenetica vita cittadina, iperbolicamente amplificati in modo da rendere l’idea di cosa significhi per Angela esporsi ad essi dopo tanto tempo.