Brema, Ottocento. Geesche (Margit Carstensen) non esita a commettere brutali omicidi ai danni dei suoi congiunti e conoscenti. Una donna senza pietà di consanguinei e mariti, fedele solo alla propria autonomia e a una mefistofelica visione utilitaristica del mondo.
Una pièce teatrale dello stesso regista, come spesso accade, fa da punto di partenza di un'opera tipicamente nelle corde del Fassbinder più nero e disperato, che non edulcora nulla e non si sottrae dinanzi alle implicazioni nefaste dell'agire umano. Peccato però che il risultato sia mediocre, derivativo, e che non aggiunga nulla all'apparato ideologico-pragmatico che il regista aveva messo a punto in quegli anni, da Dei della peste (1970) al Mercante delle quattro stagioni (1971). L'unica eccezione positiva rimane la capacità di Fassbinder, qui in sordina ma mai totalmente messa da parte, di “vivisezionare”, per usare un'espressione di Giovanni Spagnoletti, i vari aspetti e contesti della società tedesca, con un occhio tra il cinico e il clinico per i costumi peggiori e le disumanità più evidenti. Comunque troppo poco per promuovere La libertà di Brema, che non offre niente di nuovo.