Radiance
Hikari
2017
Paesi
Giappone, Francia
Genere
Drammatico
Durata
101 min.
Formato
Colore
Regista
Naomi Kawase
Attori
Masatoshi Nagase
Noémie Nakai
Tatsuya Fuji
Ayame Misaki
Chihiro Ohtsuka
Misako (Ayame Misaki) ama descrivere gli oggetti, i sentimenti e i mille dettagli del mondo che la avvolge e la circonda. Il suo mestiere consiste nel fare l’audiodescrizione dei film e la coinvolge pienamente, dal punto di vista intellettivo ed emotivo. A una proiezione, Misano si imbatte in un celebre fotografo (Masatoshi Nagase) che sta perdendo la vista, sempre più prossima al deterioramento definitivo. Misako scopre lentamente le fotografie dell’uomo, che la riportano al passato, su un sentiero di ricordi e di memorie. Entrambi, nella loro esistenza, non possono più prescindere dalla luce: Misako la cerca, mentre lui la sta smarrendo… La regista Naomi Kawase realizza il proprio personale omaggio al cinema e dunque anche alla luce: un film intimo e sentito dove l’autrice giapponese dà l’idea di volersi soffermare sulla matrice emozionale e struggente del dispositivo cinematografico e dell’elemento naturale che lo sorregge e gli permesse, di fatto, di esistere. Purtroppo però l’impianto stilistico ma anche il tono adottato non supportano a dovere tale intenzione e sono entrambi stucchevoli e ingenui: la dimensione riflessiva e metacinematografica dell’opera, con una voce off banalissima fin dai primi minuti, si disperde in tanti piccoli dettagli che la Kawase tenta in ogni modo di caricare di pathos e poeticità, con toni misurati e non certo strillati ma anche con un’inconsistenza e una frammentarietà a dir poco sbiadite e incolori. La sensazione dell’occasione sprecata aleggia lungo tutto il film, animato da un sincero tepore emotivo e da un’apprezzabile umanità ma anche troppo sfacciato e naïf nel suo ricorso a metafore elementari, ammiccamenti visivi scolastici e frasi a effetto piuttosto indigeste («Niente è più bello di ciò che sparisce prima dei tuoi occhi»). Un film circostanziale e imbalsamato dove l’amore per il cinema è una castrazione più che un’illuminazione, nonché un lavoro che più che a un haiku somiglia a un prolisso e non troppo ispirato sermone romantico. Anche il discorso sulla cecità da un lato e sulla ricerca della luce dall’altro, come due facce di uno stesso, disperato bisogno d’immagini e d’amore, è tanto languido quanto acerbo e asettico. Insufficiente anche l’apparato visivo, che bagna di una luce invasiva moltissime sequenze senza tuttavia creare una sola immagine memorabile e degna di nota, mentre il discorso sulla memoria, che fa leva su alcuni correlativi oggetti semplici e ordinari per volgere lo sguardo al passato e alla gravità delle cose che periscono, non colpisce mai nel segno come dovrebbe. Anche il finale, animato da una dolcezza a fior di lacrima e tutto chiuso dentro una sala cinematografica come in trance, è un epilogo sfiatato e privo di mordente, esattamente come l’onnipresente e ruffiana colonna sonora. Presentato in concorso a Cannes 2017.
Maximal Interjector
Browser non supportato.