Cile, fine anni Settanta. La quotidianità di Raúl Peralta (Alfredo Castro) ruota ossessivamente intorno al personaggio di Tony Manero, protagonista del film La febbre del sabato sera, tra incursioni al cinema, esibizioni in discoteca e passi di danza. Mentre la dittatura di Pinochet smembra il paese, Peralta si macchierà di crimini sempre più atroci pur di raggiungere i propri scopi.
Seconda regia per Pablo Larraín (dopo Fuga del 2006), che dirige e sceneggia (insieme al protagonista Alfredo Castro e a Mateo Iribarren) un dramma dalle forti valenze sociologiche, incentrato sulla degenerazione morale di un uomo e di una nazione. La narrazione si concentra su un protagonista glaciale e respingente, simbolo degli abusi di un sistema governativo marcio e assolutista e perfetta metafora delle storture di un Cile sull'orlo del baratro; e il mito americano, anziché dare conforto e speranza di una momentanea libertà dall'oppressione, diventa funzionalmente mezzo di esaltazione psicotica e malata, veicolo per compiere e giustificare brutalità di ogni sorta. Stile scarno ed essenziale e desolazione (umana e ambientale) imperante: un'opera a tratti ostica e di non facile assimilazione, un po' altalenante nella parte centrale, ma estremamente coraggiosa nel definire (rappresentandolo in maniera indiretta, e per questo ancor più disturbante) un momento storico cupo e cruciale. Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes e miglior film al Torino Film Festival nel 2008.