Olanda, 1944. La cantante ebrea Rachel Stein (Carice van Houten), dopo che il rifugio in cui si nascondeva è saltato in aria a causa di un bombardamento, si unisce alla resistenza e, sotto il nome di Ellis de Vries, inizia una pericolosa missione di spionaggio. Incaricata di sedurre l'ufficiale delle SS Müntze (Sebastian Koch) per venire a conoscenza delle strategie future dell'esercito tedesco, constaterà amaramente che la linea di separazione tra bene e male è molto più labile di quanto pensasse.
Produzione europea che coinvolge Olanda, Germania, Gran Bretagna e Belgio, realizzata con grande dispendio di mezzi (21 milioni di dollari il budget stimato), Black book è un drammone di discreto impatto spettacolare in cui Verhoeven non riesce, però, a imprimere del tutto il proprio sigillo autoriale. Forza dell'arte (la musica), orgoglio ferito, senso di appartenenza alla nazione, tradimento, vendetta, amara rassegnazione: la carne al fuoco è tanta (forse troppa) e non sempre il regista olandese riesce a calibrare il tutto nel modo giusto. Riescono a colpire, in ogni caso, il respiro morale dato alla vicenda e l'ambiguità di una figura femminile che funge da specchio delle contraddizioni dell'occupazione nazista. Per il resto, c'è poco altro da segnalare positivamente, a partire dalla rappresentazione dei partigiani più à la page che siano mai apparsi sullo schermo, il cui spirito glamour di ribellione appare alquanto indigesto. Il prologo e l'epilogo nell'Israele del 1958 vorrebbero incorniciare la vicenda sottolineando la ciclicità delle barbarie compiute dall'uomo. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.