In un futuro imprecisato, Detroit è devastata dalla criminalità e dal disordine pubblico. La multinazionale OCP, intenzionata a ristabilire l'ordine con la forza, nel tentativo di ricreare una innovativa metropoli utopistica, assembla il primo RoboCop, un cyber-poliziotto corazzato creato sulla base di un corpo umano. Destinato all'esperimento è l'agente Murphy (Peter Weller), barbaramente ucciso durante una missione.
Trasferta hollywoodiana di enorme successo per l'olandese Verhoeven, fino a quel momento legato a produzioni indipendenti o progetti di nicchia di scarsa presa popolare. Punto fermo nella sci-fi anni '80, RoboCop è un plumbeo apologo su una società degradata segnata da profonde divisioni sociali (i delinquenti e la miseria da una parte, i politici corrotti e i facoltosi uomini di potere dall'altra) e da un'atmosfera di violenza incontrollata. Il barlume di umanità ingabbiato nell'indistruttibile armatura di RoboCop e la figura di Anne (Nancy Allen), agente dai modi mascolini che faceva coppia con Murphy, sembrano essere le uniche fiammelle di speranza per ritrovare un ordine nel caos. Regime totalitario, scenario distopico, clima cupo e disperato: tutti ingredienti ben dosati che attingono sapientemente al Terminator (1984) di James Cameron, a Blade Runner (1982) ma anche alla letteratura di Asimov. Fin troppo esplicita la denuncia delle élite capitalistiche (è questo il vero limite della pellicola), ma lo sguardo cinico e graffiante di Verhoeven colpisce nel segno, così come il suo approccio iperrealistico. E c'è pure una lettura cristologica della vicenda, con la morte e la conseguente resurrezione di Murphy. Arnold Schwarzenegger era stato inizialmente considerato per il ruolo del protagonista.