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I migliori film che raccontano come si fa il cinema
E' un tema sempre molto dibattuto il "cinema che parla di cinema" e come le pellicole abbiano scelto di riflettere sul mezzo cinematografico e sulla storia della Settima Arte in generale. Si tratta di una modalità espressiva che il cinema, forse la più meta-riflessive in assoluto delle arti, ha sempre accolto al suo interno, facendo fioccare film meta-cinematografici e opere che riflettono o raccontano il cinema nel suo farsi.

Essendo l'arte costitutiva del XX secolo e un'arte giovane, il cinema ha poi sempre respirato una certa dose di precarietà e sviluppato, di conseguenza, una capacità singolare di guardarsi allo specchio e confrontarsi coi fantasmi e le tensioni della messa in scena in presa diretta, specie quando ha deciso di darle la ribalta delle proprie narrazioni. 

Ecco, dunque, quelli che secondo il nostro dizionario e in base al giudizio della redazione sono i migliori film che hanno raccontato il cinema, con una ricchezza ideale di proposte che va dalle autorialità molto personali di Tarantino e Fellini passando per i francesi, agli antipodi anche sul fronte comunque del meta-cinema, Truffaut e Godard, ma anche per film della vecchia guardia hollywoodiana ed esperimenti più radicalmente teorici come L'occhio che uccide di Michael Powell, fino a omaggio dichiaratamente postumi come Hugo Cabret di Martin Scorsese.

10. C'ERA UNA VOLTA A... HOLLYWOOD di Quentin Tarantino (2019) 



Arrivato al nono film, Quentin Tarantino crea una vera e propria opera-mondo della sua carriera, inglobando all’interno di un solo lungometraggio tutte le tematiche, le passioni e anche le ossessioni che hanno caratterizzato il suo cinema. Non è un caso che il titolo, C’era una volta a… Hollywood, sia già di per sé uno sguardo verso il passato, ma non soltanto quello del cinema in senso ampio: si tratta infatti di uno sguardo anche nostalgico sul cinema dello stesso Tarantino, che crea un’opera personalissima, teorica e che non scende a compromessi. Certo, poi c’è anche il versante (altrettanto fondamentale) relativo al periodo storico che il cinema stava passando in un momento decisivo come quello della fine degli anni Sessanta, a partire dall’avvento della New Hollywood (il 1969 è l’anno di Easy Rider e Dennis Hopper viene anche esplicitamente citato) e di un’industria come quella hollywoodiana che doveva forzatamente cambiare per rispondere ai bisogni e agli interessi delle nuove generazioni. 

9. EFFETTO NOTTE di François Truffaut



Opera tra le più celebri di François Truffaut, Effetto notte si basa su due storie che si intrecciano tra loro: da un lato viene mostrata la vicenda personale della troupe (cinque attori e attrici, il regista, il produttore e alcuni tecnici) con le loro dispute, riconciliazioni, problemi intimi. Parallelamente, si svolge l'iter della pellicola, il cosiddetto “film nel film”, che è ispirato a un fatto di cronaca avvenuto in Inghilterra: un giovane (Alphonse/Jean Pierre Léaud), da poco sposato con una ragazza inglese (Pamela/Julie Baker-Jacqueline Bisset), giunge sulla Costa Azzurra per presentare la moglie ai propri genitori (Sèverine/Valentina Cortese e Alexandre/Jean-Pierre Aumont). Il padre del giovane si innamora della nuora e fugge con lei. Il figlio lo ritrova e lo uccide. 

8. HUGO CABRET di Martin Scorsese



Dimentichiamo per un momento lo Scorsese che conosciamo: è questo, infatti, il suo primo film “per ragazzi” (dal romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick) e, insieme, il suo omaggio più grandioso, intimo e fiabesco a quella Fabbrica dei Sogni chiamata Cinema. La rocambolesca avventura dickensiana vissuta dal protagonista si intreccia così alla rievocazione, tra realtà e fantasia, della figura di Méliès, autore de Le voyage dans la Lune(1902) e tra i primi maestri della storia del cinema. Ne esce un gioiello nostalgico ma non passatista, che paradossalmente esalta le origini artigianali e analogiche della Settima arte per mezzo della più avanzata tecnologia digitale, con un 3D valorizzato al meglio, effetti visivi di abbagliante spettacolarità – vedi la sequenza dell'arrivo del treno che omaggia i fratelli Lumière – e meravigliosi scenari retrò ricostruiti da Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. 

7. I PROTAGONISTI di Robert Altman



Robert Altman flirta spudoratamente con la commedia nera, a partire da un romanzo di Michael Tolkin da lui stesso sceneggiato, e raggiunge uno degli esiti satirici su Hollywood più corrosivi e ghignanti di tutti gli anni '90. La sua messa alla berlina della grettezza degli studios e dei loro capi, più stupidi e mercantili che mai nella loro ansia di sicurezza e di successo garantito, digrigna i denti in più di un'occasione e non esita nel mostrare la ferocia volgare e senza compromessi di una realtà priva del senso della misura, lontana dall'arte come Sodoma e Gomorra sono lontane dalla beatitudine eterna. Come suggerisce il titolo originale, è un film che gioca e rincorre di continuo se stesso, alzando la posta, esagerando col riso amaro, le comparsate e con le virtuosistiche trovate stilistiche (il piano-sequenza iniziale è impareggiabile) per approdare infine a una disastrata visione di un'umanità impunita e priva di scrupoli e dei suoi difetti più significativi, ancora una volta metafora di una nazione intera (l'attaccamento al materialismo, la voglia irrefrenabile di far le scarpe al proprio vicino di turno, l'amoralità rampante che gli anni novanta, rispetto al decennio precedente, non sono riusciti a estirpare).

6. IL DISPREZZO di Jean-Luc Godard



L'omonimo romanzo di Alberto Moravia è solo un pretesto, narrativo e produttivo, per realizzare una pellicola che amplia decisamente il raggio d'azione rispetto alle pagine del testo di partenza. Jean-Luc Godard compie una spietata e cinica analisi delle dinamiche di coppia, segnate da quell'incomunicabilità che tornerà a trattare nel successivo Il bandito delle undici(1965). Il regista costruisce un film, in parte, autobiografico e incentrato sull'opposizione tra vera arte (Omero) e prodotto commerciale (la pellicola hollywoodiana): il complesso rapporto con produttori attenti soltanto a dinamiche commerciali è un argomento che tocca Godard da vicino, e che avrà ancora un ruolo da protagonista nelle sue pellicole degli anni Ottanta, spesso incentrate, come Il disprezzo, su un film da farsi. Attraverso una confezione impeccabile, fatta di sinuosi movimenti di macchina e di ambientazioni suggestive (Villa Malaparte, a Capri), l'autore dà vita a una complessa riflessione sulla maestosità dell'arte classica (l'insistenza sulle statue) che oggi potrebbe essere proseguita dal cinema, rappresentato dall'amato Fritz Lang che veste i panni del regista dell'ipotetica Odissea.

5. L'OCCHIO CHE UCCIDE di Michael Powell 



Capolavoro imprescindibile e titolo di culto assoluto, L'occhio che uccide (il titolo originale, Peeping Tom, in gergo significa "guardone") rimane uno dei lungometraggi più controversi e deviati della storia del cinema, che all'uscita fece gridare allo scandalo non solo per i contenuti di inusitata morbosità, ma anche perché dietro la macchina da presa (qui strumento di morte e prolungamento fisico delle pulsioni violente e sessuali dell'uomo) c'è il distinto e "insospettabile" Michael Powell, maestro del cinema britannico che ha segnato la settima arte insieme al sodale Emeric Pressburger. E rimane incredibile come il regista inglese abbia uccisoil cinema dell'epoca (e non solo) proiettando tutto se stesso all'interno del film, ritagliandosi addirittura la piccolissima (e sfocata) parte del padre aguzzino di Mark. Saggio metafilmico che unisce voyeurismo, riflessione sul cinema, trattato sui traumi infantili, necrofilia, indagine del subconscio, repressione, morbosità del desiderio carnale e, soprattutto, una sconvolgente provocazione allo spettatore, costretto a veder emergere le proprie perversioni in un disturbante processo di identificazione con il protagonista. 

4. VIALE DEL TRAMONTO di Billy Wilder



Immortale capolavoro del cinema americano degli anni '50 e una delle più importanti pellicole cinematografiche di sempre, Viale del tramonto è, con ogni probabilità, il miglior film realizzato da Hollywood su se stesso e sullo star system, antesignano di una serie di altre opere più o meno riuscite, da I protagonisti(1992) di Robert Altman a Mulholland Drive (2001) di David Lynch, fino ai più recenti The Canyons (2013) di Paul Schrader e Maps to the Stars (2014) di David Cronenberg, che hanno riflettuto sul mondo funereo, malato ma anche affascinante del cinema americano e del divismo. Girato da Billy Wilder (qui all'apice della sua carriera) con un registro anomalo, che fonde il dramma, la commedia, ma anche il noir e atmosfere lugubri tinte quasi di horror (tendendo a una fusione totale di tutti i generi classici inventati da Hollywood), Viale del tramonto descrive il cinema come una grande fabbrica di sogni e di schegge di immaginario collettivo (le strade di cartapesta degli studi della Paramount che, nella vita del personaggio di Nancy Olson, costituiscono i luoghi d'infanzia, se non proprio i luoghi dell'anima del passato), mettendone contemporaneamente in risalto l'anima oscura nella stigmatizzazione di semidei abbandonati come relitti. E a un contenuto di straziante verità va ad aggiungersi la scelta, radicale e coraggiosa, di adottare il punto di vista di un morto, ulteriore prova del collasso di un mondo in putrefazione.

3. CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA di Stanley Donen



Inarrestabile e brillantissimo flusso visivo-musicale, è uno degli esempi di cinema americano più virtuoso, smagliante ed eclettico mai apparsi sullo schermo. Grazie a un'intuizione geniale – raccontare gli anni Venti condensati nella trasformazione furoreggiante di Hollywood nel passaggio dal cinema muto al sonoro – Gene Kelly e Stanley Donen orchestrano un film memorabile, divertente e immortale. Tutti gli ingredienti concorrono alla magistrale riuscita della pellicola: si va dalla solida sceneggiatura di Adolph Green e Betty Comden, inizialmente pensata come bacino contenitivo per le canzoni del produttore Arthur Freed e di Nacio Herb Brown (già cantate in altri film musicali della MGM) al fortissimo impianto filosofico e morale dell'opera, in grado di coniugare ritmo e buoni sentimenti, per un mix di micidiale accelerazione cinetica. E, oltre alla sfavillante bellezza figurativa, a sorprendere sono i risvolti e le sottotracce cinephile della storia, un'autentica dichiarazione d'amore per la settima arte. La parentesi del film-nel-film dedicata a Broadway, in cui Gene Kelly, turbolento protagonista oltre che reale spirito animatore del lungometraggio, balla con un'ispirata Cyd Charisse (prima mangiauomini, poi creatura di bianco drappata) è da manuale di storia del cinema. 

2. MULHOLLAND DRIVE di David Lynch 



Quello che inizialmente doveva essere il pilot di una nuova serie tv, è diventato il più importante capolavoro che David Lynch abbia mai girato: Mulholland Drive era, nelle intenzioni, un nuovo progetto per il piccolo schermo, firmato dal regista che aveva rivoluzionato la storia della televisione con I segreti di Twin Peaks(1990-1991). I produttori però bloccarono l'episodio pilota e l'idea venne abortita: Canal Plus, qualche mese dopo, acquistò la puntata e stanziò altri due milioni di dollari per filmare del materiale aggiuntivo e trasformarlo in un lungometraggio memorabile. Lynch affronta per la prima volta il mondo di Hollywood, la Mecca del cinema, mostrandone inizialmente il lato più luminoso e trasognante e, in seguito, gli aspetti più torbidi, corrotti e marcescenti. Il cambio di prospettiva è affidato a due donne che sono sempre la stessa, due facce di un'unica medaglia: Betty, attrice in erba pronta a una grande carriera, e Diane, disillusa interprete di quart'ordine. Nel passaggio dalla vita di una a quella dell'altra c'è un Club (chiamato Silencio), una scatola blu e un brusco risveglio che fa ripiombare la protagonista nell'incubo della realtà. Prima era tutto un sogno (forse) costruito ad hoc da quella Fabbrica dei sogni chiamata Hollywood. Lynch gioca con il tema del “doppio”, scambiando identità e dimensioni parallele, azzardando una narrazione intricata ma mai macchinosa, e dando così vita a una delle storie più coinvolgenti e inquietanti dell'intera storia del cinema. 

1. 8 1/2 di Federico Fellini



La monumentale autobiografia di un genio in forma di racconto polifonico. Il testamento artistico multiforme di un autore che si dona al mondo non risparmiando nulla della magnifica integrità delle sue bugie quotidiane. 8½ è il film in cui verità e menzogna coincidono magistralmente e la realtà e la finzione cessano per sempre di essere distinguibili. Guido, regista debilitato in modo mellifluo dalla malinconia e dall'indolenza ma anche suadente e sfaccettato nell'animo, è per Federico Fellini molto più di un alter-ego o di un transfert. È il veicolo attraverso cui far passare un flusso di coscienza prepotente, nel quale le luci e le ombre del mondo felliniano dialogano le une con le altre, delineando una sorta di moderno romanzo cinematografico in prima persona. L'avanguardismo radicale nelle mani svagate e profonde di Fellini diventa autoanalisi, psichiatria sorniona, svelamento del proprio stesso ego che si guarda allo specchio. Il regista, profondo sostenitore della ricchezza inesauribile della superficie, dà vita a una ronda di personaggi teneri, intristiti e indulgenti che è forse la più ombelicale e allo stesso tempo irrinunciabile della storia del cinema, con momenti di sano godimento per l'invenzione (l'astronave) e sprazzi di onirismo che non è mai stato così carnale (si veda la sequenza iniziale del sogno, entrata di diritto nella storia del cinema): il visionario, dopotutto, è l'unico realista. 
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