La giovane dottoressa Jenny (Adèle Haenel) si sente in colpa per non aver assistito al pronto soccorso una ragazza di colore trovata poi senza vita. Scoprire l'identità della vittima diventerà il suo unico scopo di vita. A due anni da Due giorni, una notte (2014) i fratelli Dardenne tornano in concorso al Festival di Cannes con una parabola umana incentrata su una fragile e determinata protagonista. I due cineasti sembrano però aver smarrito quell'approccio aspro tipico dei loro lavori migliori: il risultato è un'opera scarica dal punto di vista emotivo, nonostante il soggetto di per sé molto toccante, vittima di uno stile eccessivamente controllato che impedisce allo spettatore di entrare nella vicenda e di stare addosso ai personaggi. La protagonista, seguita a distanza di sicurezza e non pedinata per cercare il consueto ruvido realismo, si fa portatrice di una "missione" per espiare la propria colpa e per farsi carico di quel senso di responsabilità insito in ogni medico che va oltre i semplici limiti professionali. Ma il percorso è prolisso, gli incontri che portano al disvelamento finale non sono quasi mai pregni di dolorosa intensità (ad eccezione della minaccia in auto) e anche i personaggi secondari (il giovane medico che abbandona la professione su tutti) non hanno quella tensione pronta a esplodere che ci si aspetta dal cinema sociale dei Dardenne. Una ricerca di identità, quella di Jenny, rivolta a se stessa e al prossimo, a cui però manca una motivazione forte. La protagonista potrebbe essere l’allegoria di un’Europa che si volta dall’altra parte di fronte al dramma dei migranti in cerca di aiuto, ma anche da questo versante la riflessione non è sviluppata adeguatamente. E l'epilogo fa rimpiangere gli straordinari finali a cui ci avevano abituati i due registi belgi. Nel cast gli habitué Jérémie Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione.