Dopo la cerimonia di premiazione di sabato sera, ieri si è ufficialmente conclusa la trentatreesima edizione del Festival del cinema Africa, d’Asia e America Latina. Mentre al cinema Godard di Fondazione Prada andava in scena il terzo e ultimo omaggio al presidente di giuria Lav Diaz, con la proiezione del film che è valso al regista filippino il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 2016, “The Woman Who Left - La donna che se ne è andata”, il programma dell’ultima giornata ci ha portato una proiezione speciale nella sezione E tutti ridono… con la commedia cinese “The Movie Emperor” diretto da Ning Hao e due film della sezione Flash, “The Gift” di Dalmira Tilepbergen, film che arriva dal Kirghizistan e che è uscito vincitore di due premi dalla serata di sabato, e il film di chiusura, il marocchino “Les meutes”, diretto dal regista Kamal Lazraq.
The Movie Emperor. Andy Lau interpreta Lau Wai-Chi, una star del cinema di Hong Kong osannata da milioni di fan e ossessionata dalla concorrenza. Deciso a cambiare la propria immagine, accetta il ruolo di un allevatore di maiali in un piccolo film indipendente, convinto che questa incursione nel cinema miserabilista sarà proprio ciò che bramano i festival cinematografici stranieri. Il film di Ning Hao è una commedia satirica e metacinematografica che ragiona sullo stardom e sul ruolo dell’industri cinematografica cinese in rapporto al cinema internazionale. Andy Lau si cala perfettamente nei panni di una star la cui vita non funziona più nel mondo reale. Sentendo l'ansia di essere sotto l'occhio vigile delle telecamere ovunque vada, l’immagine pubblica inizia a prendere il sopravvento su quella privata. Al netto di una durata eccessiva, “The Movie Emperor” è una commedia intelligente, ben recitata, scritta e diretta.
The Gift. Uscito trionfante dalla cerimonia di premiazione con due premi, Premio AEC – Diocesi di Milano e il Premio Terre des Hommes – Italia “Visioni Future”, “The Gift” è un film ambientato tra le maestose montagne dell'Asia centrale nel Kirghizistan. Il film - ispirato a una storia vera - ha per protagonista la piccola Arno, che vive in famiglia con le sue quattro sorelle. Arno fa di tutto per apparire come un maschio per compiacere il padre e ottenere da lui amore e attenzione. Nella cultura della loro comunità, infatti, avere solo figlie femmine è motivo di vergogna. Affrontando i temi del patriarcato, della differenza di genere e dei rapporti parentali, il film diretto dalla regista kirghizi Dalmira Tilepbergen porta in scena un film dolce e delicato con un’ambientazione di straordinaria bellezza, ma che pecca forse di un approccio fin troppo didascalico e alcune scelte che, almeno ad un occhio occidentale, possono apparire come delle pigre semplificazioni.
Les meutes. A chiudere quest’edizione del FESCAAAL ci pensa il film vincitore del Gran Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard dell’ultimo festival di Cannes, “Les meutes” di Kamal Lazraq. La storia è quella di Hassan, un piccolo trafficante della periferia di Casablanca, Marocco, al servizio del capo del clan locale. Quando l’amatissimo cane di quest’ultimo viene ucciso in un combattimento tra cani, Hassan è incaricato di rapire un uomo coinvolto nella morte dell’animale. Per portare a termine il compito, coinvolge il figlio Issam. All’inizio sembra andare tutto per il verso giusto, ma ben presto padre e figlio si ritrovano intrappolati in una lunga notte da incubo. Nel corso della lunga notte, “Les Meutes” passa dall’essere un semplice thriller poliziesco dalle premesse trite e ritrite ad essere uno splendido film d'atmosfera. Kamal Lazraq, al suo esordio nel lungometraggio, si dimostra in grado di creare un ottimo livello di tensione, con un’ansia “sporca” che ti resta addosso e ricorda in qualche modo il cinema dei fratelli Safdie.
Prima di salutarci e darci appuntamento all’anno prossimo, approfittiamo di quest’ultimo appuntamento per presentare una nostra piccola top 3, in ordine puramente alfabetico, dei film che più ci sono piaciuti in questi dieci giorni di FESCAAAL 33:
Demba. L’opera seconda del regista senegalese Mamadou Dia arriva al FESCAAAL dopo il passaggio alla Berlinale 2024 nella sezione Encounters. Il film segue Demba, un uomo che sta per andare in pensione dopo 30 anni di servizio nel municipio della sua piccola città natale nel nord del Senegal. Durante questa calda estate, mentre si avvicina il secondo anniversario della morte della moglie, Demba si rende conto di non riuscire a “scrollarsi di dosso” la sua scomparsa. Ma mentre la sua salute mentale si deteriora, scopre un nuovo legame con il figlio, con un aveva perso da tempo i contatti. Il film, tramite il personaggio di Demba, esplora la tensione tra lutto e guarigione, appartenenza ed estraneità, salute mentale e disturbo psichiatrico. La sua ispirazione nasce da una domanda: come può, una società che non ha una parola per definire la “depressione”, affrontare il problema? Il film Mamadou Dia si muove attraverso un ritmo languido e ipnotico che assorbe lo spettatore dal primo momento e da cui è difficile liberarsi, anche a visione terminata. Grazie ad una performance di Ben Mahmoud Mbow straordinaria, “Demba” si rileva un film profondamente intimo e sentito, volutamente ambiguo nelle scelte narrative ma che funziona egregiamente a livello emotivo.
Fremont. Il film che ha aperto il festival ormai dieci giorni fa è anche uno dei film più belli di questa edizione. Presentato al Sundance Film Festival nel gennaio 2023, il film del regista nato in Iran ma cresciuto a Londra ha poi iniziato un giro festivaliero che lo ha portato a partecipare ad alcuni dei festival più importanti del mondo, tra cui lo statunitense South by Southwest e il ceco Karlovy Vary International Film Festival, dove si è portato a casa il premio per la miglior regia. Il film di Babak Jalali è ambientato nella città da cui il film prende il nome, Fremont, una cittadina nei pressi di San Francisco anche nota come Little Kabul perché ospita una delle più grandi comunità di afghani degli Stati Uniti. Racconta la storia di Donya, una giovane rifugiata afghana che lavorava a Kabul come interprete per gli Americani; conduce un'esistenza solitaria, divisa tra il lavoro come scrittrice di frasi profetiche dei biscotti della fortuna di una piccola ditta cinese e le sedute con un eccentrico psicoterapeuta. Tormentata dall'insonnia e dal ricordo di coloro che ha lasciato a Kabul, Donya cerca l’amore. Uno humor deadpan e sottile che potrebbe ricordare il primo cinema di Jim Jarmusch, ma anche quanto già fatto da Carolina Cavalli con il suo “Amanda”, Fremont è un film non facile con cui entrare in sintonia ma se ci si riesce a mettere sulle stesse frequenze d’onda è impossibile da non amare.
Sujo. Vincitore anche del premio del pubblico del FESCAAAL, il Premio Città di Milano, “Sujo” arriva direttamente dal Sundance Film Festival di quest’anno, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Il film, diretto dalla coppia di registe Astrid Rondero e Fernanda Valadez, racconta la storia di Sujo che, all’età di quattro anni, perde il padre, temutissimo sicario di un cartello messicano dello Stato di Michoacan. Sopravvive grazie alle zie, Nemesia e Rosalia, che lo crescono in una campagna isolata tra difficoltà, miseria e il costante pericolo associato alla sua identità. Da giovane adulto capisce che il destino di suo padre potrebbe essere ineluttabile e cerca di sfuggirgli tentando di ricostruire la sua vita a Città del Messico. “Sujo” è un ritratto riflessivo e ipnotico dell'infanzia e della giovinezza del personaggio principale, che con una spada di Damocle che rappresenta la violenza e il peccato generazionale. Il film di Astrid Rondero e Fernanda Valadez, anche se forse un po’ troppo lungo, con una parte centrale che risulta troppo compassata, è riuscito sotto tutti i punti di vista, con una sceneggiatura solida, un’interpretazione principale notevole e soprattutto una regia in grado di creare momenti di grande tensione.
Grazie per averci seguito nel racconto di questi dieci giorni di film, incontri e cinema a tutto tondo!
A cura di Simone Riccardi
The Movie Emperor. Andy Lau interpreta Lau Wai-Chi, una star del cinema di Hong Kong osannata da milioni di fan e ossessionata dalla concorrenza. Deciso a cambiare la propria immagine, accetta il ruolo di un allevatore di maiali in un piccolo film indipendente, convinto che questa incursione nel cinema miserabilista sarà proprio ciò che bramano i festival cinematografici stranieri. Il film di Ning Hao è una commedia satirica e metacinematografica che ragiona sullo stardom e sul ruolo dell’industri cinematografica cinese in rapporto al cinema internazionale. Andy Lau si cala perfettamente nei panni di una star la cui vita non funziona più nel mondo reale. Sentendo l'ansia di essere sotto l'occhio vigile delle telecamere ovunque vada, l’immagine pubblica inizia a prendere il sopravvento su quella privata. Al netto di una durata eccessiva, “The Movie Emperor” è una commedia intelligente, ben recitata, scritta e diretta.
The Gift. Uscito trionfante dalla cerimonia di premiazione con due premi, Premio AEC – Diocesi di Milano e il Premio Terre des Hommes – Italia “Visioni Future”, “The Gift” è un film ambientato tra le maestose montagne dell'Asia centrale nel Kirghizistan. Il film - ispirato a una storia vera - ha per protagonista la piccola Arno, che vive in famiglia con le sue quattro sorelle. Arno fa di tutto per apparire come un maschio per compiacere il padre e ottenere da lui amore e attenzione. Nella cultura della loro comunità, infatti, avere solo figlie femmine è motivo di vergogna. Affrontando i temi del patriarcato, della differenza di genere e dei rapporti parentali, il film diretto dalla regista kirghizi Dalmira Tilepbergen porta in scena un film dolce e delicato con un’ambientazione di straordinaria bellezza, ma che pecca forse di un approccio fin troppo didascalico e alcune scelte che, almeno ad un occhio occidentale, possono apparire come delle pigre semplificazioni.
Les meutes. A chiudere quest’edizione del FESCAAAL ci pensa il film vincitore del Gran Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard dell’ultimo festival di Cannes, “Les meutes” di Kamal Lazraq. La storia è quella di Hassan, un piccolo trafficante della periferia di Casablanca, Marocco, al servizio del capo del clan locale. Quando l’amatissimo cane di quest’ultimo viene ucciso in un combattimento tra cani, Hassan è incaricato di rapire un uomo coinvolto nella morte dell’animale. Per portare a termine il compito, coinvolge il figlio Issam. All’inizio sembra andare tutto per il verso giusto, ma ben presto padre e figlio si ritrovano intrappolati in una lunga notte da incubo. Nel corso della lunga notte, “Les Meutes” passa dall’essere un semplice thriller poliziesco dalle premesse trite e ritrite ad essere uno splendido film d'atmosfera. Kamal Lazraq, al suo esordio nel lungometraggio, si dimostra in grado di creare un ottimo livello di tensione, con un’ansia “sporca” che ti resta addosso e ricorda in qualche modo il cinema dei fratelli Safdie.
Prima di salutarci e darci appuntamento all’anno prossimo, approfittiamo di quest’ultimo appuntamento per presentare una nostra piccola top 3, in ordine puramente alfabetico, dei film che più ci sono piaciuti in questi dieci giorni di FESCAAAL 33:
Demba. L’opera seconda del regista senegalese Mamadou Dia arriva al FESCAAAL dopo il passaggio alla Berlinale 2024 nella sezione Encounters. Il film segue Demba, un uomo che sta per andare in pensione dopo 30 anni di servizio nel municipio della sua piccola città natale nel nord del Senegal. Durante questa calda estate, mentre si avvicina il secondo anniversario della morte della moglie, Demba si rende conto di non riuscire a “scrollarsi di dosso” la sua scomparsa. Ma mentre la sua salute mentale si deteriora, scopre un nuovo legame con il figlio, con un aveva perso da tempo i contatti. Il film, tramite il personaggio di Demba, esplora la tensione tra lutto e guarigione, appartenenza ed estraneità, salute mentale e disturbo psichiatrico. La sua ispirazione nasce da una domanda: come può, una società che non ha una parola per definire la “depressione”, affrontare il problema? Il film Mamadou Dia si muove attraverso un ritmo languido e ipnotico che assorbe lo spettatore dal primo momento e da cui è difficile liberarsi, anche a visione terminata. Grazie ad una performance di Ben Mahmoud Mbow straordinaria, “Demba” si rileva un film profondamente intimo e sentito, volutamente ambiguo nelle scelte narrative ma che funziona egregiamente a livello emotivo.
Fremont. Il film che ha aperto il festival ormai dieci giorni fa è anche uno dei film più belli di questa edizione. Presentato al Sundance Film Festival nel gennaio 2023, il film del regista nato in Iran ma cresciuto a Londra ha poi iniziato un giro festivaliero che lo ha portato a partecipare ad alcuni dei festival più importanti del mondo, tra cui lo statunitense South by Southwest e il ceco Karlovy Vary International Film Festival, dove si è portato a casa il premio per la miglior regia. Il film di Babak Jalali è ambientato nella città da cui il film prende il nome, Fremont, una cittadina nei pressi di San Francisco anche nota come Little Kabul perché ospita una delle più grandi comunità di afghani degli Stati Uniti. Racconta la storia di Donya, una giovane rifugiata afghana che lavorava a Kabul come interprete per gli Americani; conduce un'esistenza solitaria, divisa tra il lavoro come scrittrice di frasi profetiche dei biscotti della fortuna di una piccola ditta cinese e le sedute con un eccentrico psicoterapeuta. Tormentata dall'insonnia e dal ricordo di coloro che ha lasciato a Kabul, Donya cerca l’amore. Uno humor deadpan e sottile che potrebbe ricordare il primo cinema di Jim Jarmusch, ma anche quanto già fatto da Carolina Cavalli con il suo “Amanda”, Fremont è un film non facile con cui entrare in sintonia ma se ci si riesce a mettere sulle stesse frequenze d’onda è impossibile da non amare.
Sujo. Vincitore anche del premio del pubblico del FESCAAAL, il Premio Città di Milano, “Sujo” arriva direttamente dal Sundance Film Festival di quest’anno, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Il film, diretto dalla coppia di registe Astrid Rondero e Fernanda Valadez, racconta la storia di Sujo che, all’età di quattro anni, perde il padre, temutissimo sicario di un cartello messicano dello Stato di Michoacan. Sopravvive grazie alle zie, Nemesia e Rosalia, che lo crescono in una campagna isolata tra difficoltà, miseria e il costante pericolo associato alla sua identità. Da giovane adulto capisce che il destino di suo padre potrebbe essere ineluttabile e cerca di sfuggirgli tentando di ricostruire la sua vita a Città del Messico. “Sujo” è un ritratto riflessivo e ipnotico dell'infanzia e della giovinezza del personaggio principale, che con una spada di Damocle che rappresenta la violenza e il peccato generazionale. Il film di Astrid Rondero e Fernanda Valadez, anche se forse un po’ troppo lungo, con una parte centrale che risulta troppo compassata, è riuscito sotto tutti i punti di vista, con una sceneggiatura solida, un’interpretazione principale notevole e soprattutto una regia in grado di creare momenti di grande tensione.
Grazie per averci seguito nel racconto di questi dieci giorni di film, incontri e cinema a tutto tondo!
A cura di Simone Riccardi